Nessuno assumerebbe un pasticcere che non possa descrivere i passaggi esatti che userebbe per preparare una torta. Allo stesso modo, nessuno assumerebbe un falegname per costruire una legnaia che non avesse mai sentito parlare di un martello. E qualsiasi persona che non conosca i passi esatti che un virologo compie per provare l’esistenza di un virus non è assolutamente in grado di giudicare se il Sars-CoV-2, il virus che presumibilmente causa il COVID-19, esista oppure no.
Per essere chiari, non intendo una risposta del tipo “fai un test per il virus” o “tutti i medici credono che esista un tale virus“. Mi riferisco in particolare ai passi che qualsiasi virologo nel mondo dovrebbe intraprendere per identificare un nuovo virus. Sono convinto che una volta compresi esattamente questi passaggi, la gente non crederà più che i virus abbiano mai causato le malattie. Per quanto difficile possa essere da accettare, la verità è così semplice.
In un mondo sano e razionale le autorità mediche avrebbero fatto della risposta a questa semplice domanda la prima e più alta priorità in modo da adempiere al loro compito di educatori della popolazione. Come si può notare, il processo è semplice da capire. Quindi, non c’è motivo per cui ogni persona al mondo non dovrebbe essere in grado di rispondere a questa domanda fondamentale.
Come ho potuto constatare nell’ultimo anno in cui ho tenuto centinaia di discorsi, conferenze e interviste nessun giornalista, avvocato, attivista o professionista nell’ambito sanitario, compresi i medici, ha idea di come rispondere a questa domanda. Per molti il COVID-19 (Sars-Cov-2) è diventato il proprio lavoro ma non hanno ancora idea di come viene provato se questo virus esiste. Dopo aver letto le prossime 10 pagine circa, spero che tu, a differenza di questi professionisti, non ti troverai mai più in questa situazione.
Innanzitutto, iniziamo con come la stragrande maggioranza delle persone comuni e degli operatori sanitari pensano che un virologo provi l’esistenza di un virus.
Quando pongo alle persone questa domanda la risposta che sento più spesso è: “Milioni di persone in tutto il mondo si ammalano e muoiono, quindi, deve esserci un virus”. Spesso le persone affermano che è stato dimostrato che la malattia si è diffusa da un luogo all’altro o da persona a persona, fatto che “dimostra” che la causa sia un virus. A volte fanno riferimento a storie che hanno letto: “La prigione di San Quentin non ha avuto casi di COVID-19 finché non è arrivato qualcuno con il Sars-CoV-2 che ha poi causato che molte altre persone si ammalassero” (o almeno sono risultate “positive”), fatto che dimostra ancora una volta che deve trattarsi di un virus.
A volte è la storia di zia Bessie, che è andata in chiesa venendo esposta a qualcuno che è risultato positivo per poi ammalarsi una settimana dopo. Ho sentito decine di storie del genere. Il punto importante da sottolineare è che nessuno scienziato, virologo o professionista medico competente, affermerebbe che queste osservazioni epidemiologiche provino l’esistenza di qualsiasi virus. In effetti, il ruolo dell’epidemiologia in medicina e scienza è principalmente quello di generare ipotesi, che poi possono essere testate in laboratorio per dimostrare la causalità. L’epidemiologia non può mai provare l’esistenza di alcun virus, né provare la causa di alcuna malattia. Questo semplicemente non è il suo ruolo. Su questo, non c’è praticamente disaccordo nel mondo scientifico.
Inoltre, se il fatto che molte persone si ammalano nello stesso posto dimostra che debba trattarsi di un infezione virale, allora potremmo logicamente anche concludere che un virus causò Hiroshima. Se affermiamo che se una malattia si diffonde è una prova che siano stati dei virus causarla, allora il disastro di Chernobyl potrebbe anche essere stato causato da un virus. Per più di cento anni la gente ha osservato che un marinaio dopo l’altro si ammalava sulle navi. Gli cadevano i denti, avevano un’insufficienza cardiaca e morivano. Per molti era “ovvio” che qualcosa passava da un marinaio all’altro. Ad un certo punto, però, un marinaio mangia un lime e tutto svanisce semplicemente perché i marinai ammalati soffrivano di scorbuto, una malattia causata da carenza da vitamina C.
Ci sono molti altri esempi che illustrano come le osservazioni epidemiologiche abbiano fuorviato una professione medica ostinatamente legata all’ipotesi delle malattie infettive. Per decenni si pensava che Beriberi e pellagra, due malattie causate da carenze nutrizionali, venissero causate da un contagio. Si scoprì poi che la vera causa era la carenza di vitamina B, che, come ci si aspetterebbe, affliggeva spesso membri della famiglia contemporaneamente.
Il ruolo dell’epidemiologia nella scienza è quello – o dovrebbe essere – di formulare possibili ipotesi da prendere in considerazione. Ma quando gli scienziati abusano dell’epidemiologia, diventano, citando le parole dell’ex presidente del dipartimento di epidemiologia di Harvard, “un problema per la società” che causa “più male che bene”.
Nel caso del “COVID-19” non ho problemi nel fare ricerche sull’ipotesi che un qualche agente infettivo ne possa essere la causa ma sostengo anche che dovrebbero essere svolte ricerche su molte altre possibili cause. Per essere ancora più chiari, usare l’epidemiologia per dimostrare l’esistenza di questo o un qualsiasi altro virus, è una posizione scientificamente ingenua e irrazionale.
Ora procediamo nel descrivere quello che la maggior parte delle persone e dei medici pensa sia accaduto. La maggior parte delle persone presume che la prima cosa che i ricercatori fanno di fronte a una nuova malattia sia definire attentamente i sintomi. Quindi, una volta trovato un numero significativo di persone malate in modo simile, il presupposto è che i ricercatori esaminino vari fluidi corporei delle persone malate per trovare un virus comune. L’aspettativa generale è che il virus venga rilevato nelle persone malate, che dimostri una morfologia uniforme (dimensioni, forma e altre caratteristiche fisiche) e che ogni virus (chiamato virione) contenga lo stesso materiale genetico. Questo è l’approccio chiaro, logico e razionale alla scoperta di un nuovo virus.
I fatti reali contraddicono questo approccio razionale. Sebbene alcune malattie “infettive” condividano un quadro sintomatico comune, molte, come il “COVID-19“, non lo fanno. Questo fenomeno ovviamente complica le cose, perché senza una chiara definizione della malattia come punto di partenza, identificare quali persone malate esaminare immediatamente diventa un ostacolo quasi insormontabile. Ma anche per quanto riguarda le “malattie infettive” più chiaramente definite come il morbillo o la varicella, la seguente affermazione è comunque innegabilmente vera: nella storia della medicina nessuno studio pubblicato mostra l’isolamento di particelle identiche (dal fluido corporeo di una qualsiasi persona malata) che sono in grado di causare la malattia.
Permettetemi di renderlo ancora più chiaro. Se si esamina la letteratura pubblicata su persone affette da una qualsiasi “malattia infettiva” come per esempio la varicella, la rabbia, il morbillo, l’AIDS o il COVID-19, si può facilmente constatare che tale letteratura non contiene alcuna prova che un virus sia mai stato isolato direttamente dai fluidi corporei di una persona che soffre di queste malattie. E la cosa ancora più sorprendente è che nessuna istituzione sanitaria di nessun governo al mondo lo nega. Questi fatti non vengono neanche negati da parte dei virologi o medici che pubblicano articoli nel campo della virologia. E non c’è disaccordo su questi fatti nemmeno da parte di istituzioni come il Centers for Disease Control and Prevention (CDC), il Pasteur Institute o il Robert Koch Institute.
Per dimostrare queste nostre affermazioni siamo in possesso di quasi 60 dichiarazioni scritte da istituzioni governative di tutto il mondo che confermano che non hanno campioni del Sars-CoV-2 isolato direttamente dai fluidi corporei di un essere umano. Abbiamo anche scritto riguardo alle dichiarazioni di alcuni degli autori principali dei più importanti articoli sull'”isolamento e la purificazione” del Sars-CoV-2, i quali concordano sul fatto di non aver mai tentato di isolare il virus direttamente dai fluidi di una persona malata. Infine, parlando con molti virologi, abbiamo ottenuto la conferma che nessun virus patogeno può essere isolato dal fluido corporeo di una persona malata. Dicono semplicemente che non si usa fare così.
Chiaramente, non è vero che sia tecnicamente difficile o addirittura impossibile isolare una qualsiasi particella dalle dimensioni, forma o caratteristiche di un virus trovato in un campione di fluido. Per decenni, ad esempio, gli scienziati hanno isolato particelle identiche (chiamate batteriofagi) da colture batteriche e hanno mostrato campioni puri di queste particelle al microscopio elettronico. In questo caso, tutte le particelle di una coltura sono morfologicamente identiche, tutte sono composte esattamente dalle stesse proteine e tutte hanno sequenze genetiche identiche.
Anche i passaggi per isolare una particella dalle dimensioni e delle caratteristiche di un virus sono semplici e non dissimili da come un chimico isolerebbe la caffeina da un chicco di caffè. Per prima cosa si prende un campione di qualsiasi fluido che si desidera esaminare, quindi, lo si macera (come in un frullatore) e si filtra il campione attraverso una carta da filtro che consente a qualsiasi cosa solubile, compresa qualsiasi particella delle dimensioni di un virus, di passare attraverso la carta. Dopo aver scartato le cellule, i funghi e i batteri, si mette il liquido rimanente su qualcosa chiamato “gradiente di densità del saccarosio” che lo separa in bande in base al peso molecolare. Questo processo viene chiamato ultra centrifugazione.
Con l’ultracentrifugazione il virus in questione gira in una banda. La banda può poi venire estratta dal gradiente con una pipetta microscopica per esaminarne la purezza. In questo modo si può confermare che l’unica sostanza estratta è il virus. Una volta fatto ciò è possibile studiare il virus, determinarne la morfologia esatta e la sequenza del suo intero genoma. E soprattutto si può esporre degli animali a questo virus isolato e purificato per vedere se si ammalano.
Questi passaggi sono il modo in cui la scienza dovrebbe provare l’esistenza dei virus. Si isola la variabile, in questo caso il virus, e quindi, lo si caratterizza. Una volta che si è certi dell’esistenza del virus, se ne può testare l’infettività sugli animali. Eppure questo semplice e fattibile esperimento non è mai stato effettuato con successo per nemmeno una malattia infettiva, e certamente non c’è mai stato neanche un tentativo per quanto riguarda il Sars-CoV-2. Neanche una volta.
Quando chiedo a medici o virologi il perché non svolgono questi semplici, chiari, logici e razionali esperimenti per dimostrare l’esistenza di un nuovo virus e dimostrare che causa la malattia, ricevo sempre le solite due risposte. La prima è che non c’è abbastanza virus presente nel fluido corporeo delle persone malate per poterlo rilevare in questo modo. Ho persino chiesto agli scienziati se fosse stato possibile rilevare il virus nel fluido bronchiale di 10’000 persone con il “COVID-19” ma la risposta è stata la stessa: “Non c’è abbastanza virus per poterlo rilevare”. A questo punto sorge ovviamente una domana: secondo quale teoria stiamo determinando che il virus stia facendo ammalare le persone? A questa domanda non c’è risposta.
La seconda risposta che sento spesso è che i virus sono “parassiti” intracellulari, quindi, ovviamente, non possiamo trovarli fuori dalle cellule. Quando viene chiesto come il virus passa da una persona all’altra, come pretendono che faccia, i virologi rispondono “esce fuori dalla cellula, entra in una goccia e viaggia fino alla prossima persona”. In altre parole, il virus viene trasmesso quando è al di fuori della cellula. Mi chiedo allora come sia possibile che virologi non riescano a trovarlo durante questo passaggio di trasmissione, visto che pensano che sia al di fuori della cellula.
Qui ci confrontiamo con un dilemma. È chiaro che nessun virologo ha mai isolato un virus patogeno da un fluido corporeo di una qualsiasi persona malata. Come possono i virologi affermare in migliaia di documenti, compresi che riguardano il Sars-CoV-2, che un virus è stato “isolato”, caratterizzato e che causa le stesse malattie negli animali? Ci sono centinaia di articoli in cui viene affermato che il genoma del Sars-CoV-2 è stato sequenziato, e che delle varianti di questo genoma sono state scoperte. Capire come i virologi non sono in grado di giustificare queste loro affermazioni, è la chiave per capire come la virologia abbia perso la sua integrità scientifica.
Se non seguono i passaggi descritti per isolare un virus, su quali basi i virologi rivendicano l’esistenza di un nuovo virus e ne provano la patogenicità? La risposta è semplice: i virologi affermano che qualcosa chiamato “effetto citopatico” è la prova dell’esistenza di un virus e del suo potenziale nel causare la malattia. Anche in questo caso, nessuno nega che questo è il procedimento usato.
Per capire capire cos’è l’effetto citopatico dobbiamo rivisitare alcuni eventi fondamentali nella storia della virologia che si verificarono nei primi anni ’50. A quest’epoca i virologi entrano in possesso degli strumenti che li permettono di vedere le particelle, le dimensioni e la morfologia di un virus utilizzando il microscopio elettronico. Si resero conto che non era possibile vedere particelle uniformi provenienti dai campioni di una persona malata. In sostanza, con l’avvento del microscopio elettronico, la fondazione stessa della virologia veniva smontata!
Fortunatamente per la professione della virologia, un uomo di nome John Franklin Enders salvò tutto “scoprendo” il processo che è diventato noto come la “cultura virale”, una scoperta per la quale ricevette un premio Nobel nel 1954. Nel 1954 e nel 1957, Enders scrisse due documenti che descrivono come creare culture virali (utilizzando un “mezzo di nutrienti minimi”) e questa metodologia è diventata oggi lo standard per provare che i virus esistono.
Ricorda, un virus è una particella talmente piccola che può essere vista solo con l’ingrandimento disponibile tramite un microscopio elettronico. Ricorda inoltre che un virus è concepito per essere una minuscola particella con un rivestimento proteico che racchiude una piccola quantità di materiale genetico (DNA/RNA). Il gioco consiste nel trovare questa particella unica e mostrare che provoca la distruzione dell’ospite su cui cresce.
Tenendo presente questi aspetti della definizione di un virus, ecco i passaggi delineati da Enders nella sua carta del 1954. Enders iniziò il suo esperimento prelevando un campione con tampone dalla gola di sette figli ricoverati con i sintomi del morbillo. Mescolò il tampone di cotone con due millilitri di latte, quindi, con un’altra fonte di materiale genetico. Poi aggiunse il tampone unto nel latte a una soluzione contenente:
“Penicillina, 100ug/ml e streptomicina, 50 mg/ml che sono stati aggiunti a tutti gli esemplari per poi venire centrifugati a 5450 rpm per circa un’ora. Un fluido e sedimento supernatante risospeso in un piccolo volume di latte che venivano inoculati in diversi soggetti con un dosaggio che variava dai 0,5 ai 3 ml.
“Inoculazione” che è solo il campione utilizzato nel prossimo passo, che consiste nello inoculare materiale in una cultura di cellule (Typsinized Human and Rhals Monkey Kidney).
A questa cultura aggiunse quanto segue:
“La cultura consisteva di fluido amniotico bovino (90%), estratto di embrione di manzo (5%), siero di cavallo (5%), antibiotici e fenolo rosso come indicatore del metabolismo cellulare”.
In parole povere, Enders mischiò il campione con sei altre sostanze che sono note per essere composte da proteine e materiale genetico. Ora sappiamo che da queste culture si creano delle particelle con le dimensioni e la morfologia di ciò che chiamano virus. Queste altre sei sostanze sono il latte, cellule renali umane, cellule renali di scimmia rhesus, fluido amniotico bovino, estratto di embrione di manzo e siero di cavallo.
A questa cultura, il gruppo di ricerca di Enders aggiunse successivamente antibiotici che sono noti per essere tossici per le cellule renali, in particolare la streptomicina (Oggigiorno tendono a utilizzare gli antibiotici Genanticin e Amphoterricin). Enders e colleghi procedettero quindi con l’osservazione di questa soluzione durante l’arco di un certo numero di giorni. Quando videro un caratteristico effetto citopatico (CPE) nelle cellule delle culture, il che significa la transizione di cellule culturali sane dalle dimensioni normali in cellule giganti e disorganizzate con fori o vacuoli interni, conclusero che il virus presente nel tampone stava distruggendo le cellule nella cultura. In conclusione, questo “effetto citopatico” era solo il risultato di cellule morenti che credevano fossero state distrutte dal virus.
Fino al giorno d’oggi, con rare eccezioni, ogni “isolamento virale” inizia con questo processo di coltura difettoso. Inoltre, ogni analisi genetica di qualsiasi virus viene fatta basandosi sui risultati di questa cultura cellulare, non usando un virus isolato e purificato. Nessuna eccezione. Pertanto, se i virologi vogliono estrarre il genoma di un nuovo virus, non lo fanno isolando il virus da una persona malata e sequenziando quella particella specifica. Piuttosto, prendono un campione imprigionato da una persona malata e lo aggiungono a una cultura per poi fare le loro analisi sulla miscela risultante: non sul virus stesso.
Una volta che si capisce come funziona questo procedimento sorgono due domande molto critiche. Prima di tutto, come possiamo essere sicuri, assolutamente sicuri, che il CPE è il risultato di un virus e non della privazione di nutrimento e avvelenamento della cultura cellulare? In secondo luogo, come possiamo essere certi, assolutamente certi, che qualsiasi particella risultante e materiale genetico nella cultura finale provenga dal virus e non da una delle altre sei sostanze aggiunte alla cultura, che, si sa contengano proteine, “virus” e materiale genetico? Queste due domande sono alla base dell’intera fondazione della virologia, ma sorprendentemente, i rigorosi controlli che potrebbero fornire risposte, non vengono mai fatti.
È interessante notare che anche Enders era a conoscenza delle potenziali insidie che possono derivare dall’uso del suo metodo sperimentale, poiché affermo quanto segue:
“Un secondo agente è stato ottenuto da una cultura di cellule renali di scimmia. I cambiamenti citopatici che sono stati indotti nei preparati puri non potevano essere distinti con certezza dai virus ottenuti dal morbillo”.
In poche parole, anche se Enders non descrive il suo esperimento di controllo nel dettaglio, afferma di avere ripetuto questo intero esperimento di coltura cellulare senza aggiungere nessun “virus”. La CPE e le particelle risultanti ottenute “non potevano essere distinte” dai risultati che ha ottenuto quando inoculò la cultura con il morbillo. Questa è una chiara prova che la CPE veniva causata dalle condizioni presenti nella cultura e non da un presunto virus proveniente dai pazienti del morbillo.
Nel Documento di follow-up nel 1957, Enders conferma le sue preoccupazioni per il su metodo sperimentale, affermando:
“Ruckle ha recentemente ottenuto risultati simili e inoltre ha isolato un agente del tessuto renale della scimmia che finora è indistinguibile dal virus del morbillo umano”.
In altre parole, un secondo virologo, Ruckle, trovò particelle provenienti dalle cellule renali di scimmia che erano “indistinguibili” da quelle che Enders chiamava “il virus del morbillo umano”.
Un’importante comprensione delle scoperte di Enders – qualcosa di cui quasi nessun medico si rende conto -, è che ogni vaccino virale vivente non è altro che una cellula parzialmente purificata (minimamente filtrata) in una “miscela di cultura”. I programmi di vaccinazione del morbillo coinvolgono l’iniezione dei risultati di questo esperimento di coltura cellulare su larga scala.
Più avanti nell’articolo del 1957, Enders ribadisce il dilemma centrale: come possiamo conoscere l’origine delle particelle che abbiamo scelto di chiamare il virus del morbillo umano? In questa particolare citazione, fece riferimento al problema nel contesto dei vaccini:
“Vi è un potenziale rischio nell’approvare culture delle cellule preliminari per la produzione di vaccini composti da virus attenuato, poiché la presenza di altri agenti possibilmente latenti nei tessuti di primati non può essere decisamente esclusa da qualsiasi metodo noto”.
Ciò che è chiaro dal lavoro di Enders è che non sapeva se l’origine delle particelle che affermava fossero il virus del morbillo umano provenivano da una persona malata o se era il risultato della rottura di una delle fonti di materiale genetico utilizzato nella coltura cellulare.
Negli anni ’50 non c’era modo di distinguere un virus esogeno o patogenico dalle normali particelle formate quando le cellule morenti si rompono. Sicuramente, 67 anni dopo, con i nostri moderni strumenti analitici, i virologi dovrebbero essere in grado di distinguere tra queste due entità. Tuttavia, ecco cosa viene pubblicato nel maggio 2020 per quanto riguarda esattamente questo problema:
“La notevole somiglianza tra le EVS (vescicole extracellulari) e i virus ha causato alcuni problemi negli studi focalizzati sull’analisi delle EVS rilasciati durante le infezioni virali… Tuttavia, fino ad oggi, un metodo affidabile che può effettivamente garantire una separazione completa, non esiste “.
Oggi i virologi si riferiscono agl’inevitabili prodotti di rottura dei tessuti morti e morenti come vescicole extracellulari o talvolta come “esosomi”. Queste particelle possono essere isolate e purificate direttamente dai fluidi corporei dei malati. Sono concettualmente diverse dai virus che si presume provengano da una persona e vengono considerate agenti patogeni. Le EVS vengono causate dalla rottura dei tessuti della persona e non sono agenti patogeni. E, a partire dal 20 maggio, i virologi ammettono che non possono distinguere tra le due cose.
C’è solo una spiegazione realistica per questo. Tutte le particelle con le dimensioni, la composizione e la morfologia dei “virus” sono, in realtà, i risultati normali e inevitabili della ripartizione dei nostri tessuti. E i nostri tessuti si rompono per la stessa ragione delle culture negli esperimenti di Enders: sono affamati, avvelenati o entrambi. I tessuti morenti producono una miriade di particelle, e queste particelle sono state sfortunatamente scambiate per dei virus patogeni ed esogeni. È tempo di chiarire questo equivoco.